Che cos’è l’uranio impoverito

Che cos’è l’uranio impoverito

December 28th, 2008  |  Published in Documenti

L’uranio impoverito (depleted uranium) è una miscela di uranio più povera rispetto alla concentrazione naturale (0,7% circa) dell’isotopo di numero di massa 235 (235U) ed è lo scarto del procedimento di arricchimento dell’uranio utilizzato come combustibile nelle centrali nucleari e come principale elemento detonante nelle armi nucleari. Da 12 kg di uranio naturale si ottiene all’incirca 1 kg di uranio arricchito e 11 kg di uranio impoverito.

L’UI è impiegato in vari campi dell’industria civile per le sue caratteristiche: l’alta densità, che si traduce in un elevatissimo peso specifico; il basso costo; la relativa abbondanza, dovuta al fatto che da più di 40 anni si accumula nei depositi materiale di scarto radioattivo. E’ principalmente usato come materiale per la schermatura dalle radiazioni (anche in campo medico) e come contrappeso in applicazioni aerospaziali, come per le superfici di controllo degli aerei (alettoni e piani di coda).

Oltre che in applicazioni civili, l’UI è usato nelle munizioni anticarro e nelle corazzature di alcuni sistemi d’arma. Se adeguatamente legato e trattato ad alte temperature, diventa duro e resistente come l’acciaio temperato e risulta altamente piroforico (capace di accendersi spontaneamente).
Come componente di munizioni anticarro è molto più efficace contro le corazzature del costoso tungsteno monocristallino, il suo principale concorrente.

La tipica munizione all’UI è costituita da un rivestimento (sabot), che viene perduto in volo per effetto aerodinamico, e da un “penetratore”, la parte che effettivamente penetra nella corazzatura per il solo effetto dell’alta densità unita alla grande energia cinetica dovuta all’alta velocità. Il processo di penetrazione polverizza la maggior parte dell’uranio, che esplode in frammenti incandescenti (fino a 3 000 °C) quando colpisce l’aria dall’altra parte della corazzatura perforata, aumentandone l’effetto distruttivo. Le munizioni di questo tipo vengono chiamate in gergo militare API, Armor piercing incendiary ammunitions, ovvero munizioni incendiarie perforanti.

I penetratori all’UI che non colpiscono l’obiettivo possono rimanere sul suolo, essere sepolti o rimanere sommersi nell’acqua, ossidandosi e disgregandosi nel corso del tempo. La dimensione delle particelle di uranio create, la facilità con cui esse possono essere inalate o ingerite e la loro capacità di muoversi attraverso l’aria, la terra, l’acqua o nel corpo di una persona dipendono dalla maniera in cui si è polverizzato l’UI metallico. I test dell’esercito statunitense hanno dimostrato che quando un penetratore da 120 mm all’UI colpisce un bersaglio corazzato si liberano da 1 a 3 kg di polvere di uranio radioattiva e altamente tossica. Un carro armato colpito da tre di queste munizioni e l’area attorno ad esso potrebbero essere contaminati da 3 a 9 kg di particolato di uranio. Inoltre, la polvere prodotta da un impatto iniziale potrebbe essere rimessa in sospensione da impatti successivi. Esplosioni di test e studi sul campo hanno mostrato che la maggior parte della polvere prodotta dagli impatti finisce per depositarsi entro un raggio di 50 metri dal bersaglio, tuttavia le particelle più fini vengono disperse in atmosfera sotto forma di aerosol su distanze di centinaia di chilometri.

L’UI è un metallo pesante radioattivo: il contatto diretto e prolungato con munizioni o corazzature all’UI può causare effetti clinici nefasti e raggiunge il suo massimo potenziale di danno quando frammenti o polveri penetrano nel corpo. La tossicità chimica dell’UI rappresenta la fonte di rischio più alta a breve termine, ma anche la sua radioattività può causare problemi clinici nel lungo periodo. Il pericolo principale di contaminazione è l’inalazione, seguito dal contatto e dall’assorbimento mediante il ciclo alimentare o attraverso l’acqua. Un pericolo particolare deriva dall’incorporazione di particelle di uranio impoverito attraverso le ferite, che le porta direttamente a contatto con i tessuti vitali.

Circa 300 tonnellate di UI sono state esplose durante la prima guerra del Golfo e quantita’ altrettanto rilevanti sono state impiegate in Bosnia, nella guerra del Kosovo e nell’Operazione Enduring Freedom. Il Ministero della Difesa ha sempre negato che i contingenti italiani abbiano fatto uso di munizioni all’UI, ma restano da spiegare i numerosi casi di tumore che si sono verificati tra il personale militare e civile delle basi militari, soprattutto in Sardegna. Al momento non esiste un trattato ufficiale sul bando delle armi all’uranio impoverito, né leggi internazionali che le vietino espressamente.

Per “Sindrome dei Balcani” si intende quella serie di malattie - per lo più linfomi di Hodgkin e altre forme di cancro - che hanno colpito i militari italiani al ritorno dalle missioni di pace internazionale.
I primi casi segnalati in Italia risalgono al 1999, quando il soldato cagliaritano Salvatore Vacca morì di leucemia al ritorno della missione in Bosnia. Da allora le vittime sono state 164 e 2500 i soldati malati. Un rapporto di causa effetto tra l’esposizione all’UI e queste malattie non è ancora stato dimostrato con certezza, ma vi sono forti indizi. Molti studi sulla Sindrome dei Balcani e sulla Sindrome del Golfo indicano le nanopolveri inorganiche (non necessariamente contenenti uranio), indipendentemente dalla loro tossicità, come possibili cause delle patologie.

Per identificare eventuali responsabilità dei vertici militari italiani e della Nato, il Governo italiano ha istituito una Commissione d’inchiesta al Senato sull’UI. I lavori si sono conclusi nel marzo del 2006. La relazione tecnico-scientifica stabiliva che “non sono emersi elementi che consentano di affermare che le patologie in questione siano da attribuire ad effetti tossicologici o radiologici derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti o alla contaminazione chimica dovuta a questo tipo di munizionamento”.

Matteo Scanni

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8 settembre 2008, Bologna
convegno "Ammalarsi di uranio impoverito"


Intervento di Mauro Bulgarelli, membro Commissione parlamentare di inchiesta sull'uranio impoverito




Intervento di Antonietta Gatti, responsabile Laboratorio dei biomateriali presso il Dipartimento di neuroscienze dell'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia




Intervento di Maurizio Torrealta, giornalista RaiNews24




Risultati Commissione parlamentare di inchiesta sull'uranio impoverito